La prima stagione di Leftovers – Svaniti nel nulla, questo il titolo esatto in italiano, si è conclusa. Ho rivisto le ultime tre puntate per due volte, approfittando anche della Maratona Leftovers di Sky Atlantic. Dico subito che la serie mi è piaciuta molto, ma non credo che saremo in molti a pensarla così, perché non segue uno schema logico e consequenziale, che è ancora dominante nel racconto audiovisivo. I misteri vengono svelati? No, anzi. Succede qualcosa? Si. Succede pure che Lost, l’altra grande serie scritta da Damon Lindelof compia 10 anni dalla sua prima messa in onda. Che c’entra? Non poco, davvero non poco.Leftovers non è Lost e si vede. Prima perché manca Abrams, che oggi è il produttore che meglio interpreta il senso del mistero e dell’avventura, per favore non tirate in ballo i blockbuster di Micheal Bay. Secondo, e più importante, perché i misteri su Leftovers non contano, siamo di fronte ad una serie escatologica, che tenta di interpretare l’ansia dell’uomo verso la fine del mondo o verso il caos odierno. Leftovers racconta un’Apocalisse Lenta che prende vita dalla dipartita del 3% della popolazione mondiale, non si sa che fine abbia fatto, è sparita. Quello che resta non sono assiomi o dogmi, piuttosto ipotesi possibili e meno plausibili rispetto alla religione, di cui il libro di Tom Perrotta è più denso, soprattutto legato al cristianesimo dei “crstiani rinati”. Ma neanche, i dubbi e le ansie sono più legati al “conformismo occidentale” – chissà che ne avrebbe scritto Ballard. Alla fine Lindelof ci fa capire che i rimasti indietro stanno vivendo un inferno, terreno e non ultra, e devono fare i conti con se stessi e con la loro facciata di felicità. In questo senso si tratta di una serie profondamente nichilista, le scene di violenza e di rabbia abbondano. Una violenza che spaventa non nella sua estetica, ma nella sua ricerca da parte dei CS (colpevoli sopravvissuti), che cercano il martirio, forse come modo di raggiungere i “dipartiti”, e nel suo abbandonarsi ad essa, come ad abbracciare il lato oscuro di ognuno. L’unica speranza sembra essere quella di affrontare il proprio vissuto, dato che anche i palliativi e le soluzioni veloci, come quelle proposte dal Santo Wayne, crollano, come cade anche lui sventrato in una toilette di un diner dove si trova Kevin, lo sceriffo protagonista, a cui pare esaudire un desiderio, quasi a testimoniare di non essere un truffatore.
Colpisce delle ultime tre puntate la regia, affidata a Mimi Leder, eccellente professionista e già produttrice e alla direzione di serie come E.R. e Westwing. A tale proposito vi invito a guardare il video, pochi minuti, di una scena fra madre e figlia nei CS col sottofondo di Nothing Else Matter dei Metallica suonata al violino. Una scena che sancisce la sconfitta dello stesso gruppo di esaltati, che neanche fra loro sono così convinti.
Eppure delle conclusioni noi non sappiamo niente, la logica della serialità lo impone, già confermata la seconda stagione, abbiamo solo un sentore di un’atmosfera che neanche sa di speranza, ma che odora di disperazione e fatica, visto che ci si dovrà guardare allo specchio e soprattutto negli occhi degli altri. I CS hanno realizzato qualcosa di straordinario, hanno costretto gli abitanti di Mapleton a ricordare, inserendo nelle loro case, i manichini raffiguranti i “dipartiti” nella loro ultima posizione. Si può obiettare che una cosa del genere non si dimentica, eppure è molto più probabile di si, vista anche la velocità della contemporaneità e della post-modernità, che già è in crisi e trasformazione. Quante volte gli eventi di pochi mesi fa ci sembrano appartenenti ad un’altra stagione della vita?
Due parole sugli ascolti in USA, buoni ma non eccellenti. Secondo me, avendola vista tutta ed essendo al terzo post su questa serie, è andato molto bene, perché non è facile, non è lineare, assomiglia più a un film di Egoyan o di Aronofsky, piuttosto che The Games of Thrones. Quello che invece deve far riflettere sono i rating, i giudizi sulle puntate, che nella seconda parte hanno superato 9 su 10, segno che si è creato un pubblico. Naturalmente se poi si monitorano le conversazioni sui social si nota l’alto gradimento, almeno su chi ha una dimestichezza con questo tipo di serialità, che non dà risposte, ma ti sfida a farti domande, un gioco rischioso però.