Ieri è andata in onda su Raiuno, Lea di Marco Tullio Giordana, il film tv che racconta la triste vicenda di Lea Garofalo, la donna nata da Petilia Policastro, in provincia di Crotone, che ha denunciato il suo compagno e poi è stata inserita nel programma di protezione testimoni. E’ una storia complessa, molto, anche perché Lea è stata anche rimossa da quella protezione, prima che il fratello, anche lui coinvolto nella ‘ndrangheta è stato ucciso. Lei è stata anche abbandonata dallo Stato, prima di essere uccisa dal marito. Una storia complessa. Nel film questa complessità non c’è.
E’ stato un buon successo, questo fa piacere, visto che ha superato i 4 milioni di spettatori e visto che in tv solo qualche reportage viene dedicato alla ‘ndrangheta calabrese, che secondo molti osservatori internazionali è fra le organizzazioni criminali più potenti e feroci al mondo. Bravissima Vanessa Scalera nel ruolo della Garofalo, ha restituito forza e potenza al personaggio, anche nei momenti di fragilità. Bene anche la giovane Linda Caridi, nel ruolo della figlia Denise. Peccato che la madre di Lea non riesca a uscire fuori, sarebbe stato bello vedere un trittico di donne della stessa famiglia. Nonostante le critiche della sorella Marisa Garofalo, che afferma che Lea non era rozza e parlava un buon italiano, francamente noi siamo rimasti conquistati dalla forza della Scalera. Il resto non c’è. La ‘ndrangheta è quasi una semplice banda criminale che si occupa di droga e di altri traffici, ma certo basterebbe leggere qualche sito web, vedere anche uno speciale di Lucarelli, per capire che le cose sono più complesse e soprattutto vanno contestualizzate in maniera migliore. Anche la presenza di Don Ciotti e di Libera viene messa così senza spiegare il perché. Questo è tutto il problema di questo film, una scrittura ordinaria che elenca fatti, semplifica le vicende, che sono descritte in maniera lineare, visto che Carlo, il compagno della Garofalo faceva molto di più che spacciare droga, visto che negli anni ’90 la situazione ‘ndrangheta era molto più sviluppata al nord. C’era un mood che sembrava anni ’70 e non contemporaneità. Il problema è fortemente la scrittura. Monica Zapelli, non è riuscita a imprimere mai un’accelerazione allo script lasciando in balia della prova degli interpreti e si vede chiaramente.
Credo che si dovrebbe uscire dalla “bontà delle intenzioni”, anche perché i temi sono forti e duri, devono essere trattati con maggiore cura e attenzione. Sembrava scritto in fretta e soprattutto non uscivano fuori emozioni. Non posso dire che sia brutto, però non mi sono sentito soddisfatto nel guardarlo, capisco che c’era il tentativo di restituire dignità a Lea Garofalo che davvero è stata maltrattata nella sua vita, però bisogna pretendere qualcosa di meglio dal racconto. Anche perché c’è un rischio forte, che piaccia a chi conosce bene le attività di Libera, ma che non provochi la voglia di approfondire e di reagire in chi si accosta a questi temi in maniera primaria.